Intento di questo saggio, scritto da Simone Weil negli anni in cui l’Europa è devastata dai sogni di potenza di Hitler e dalle sue atroci realizzazioni, è pensare la guerra per rendere conto a se stessa e al mondo della sua costante ricomparsa nella storia.
Percorrendo a ritroso i miti fondativi della nostra cultura occidentale, la pensatrice approda all’Iliade per farne emergere aspetti inesplorati e illuminanti. Il poema omerico non celebra infatti l’eroismo ma la guerra, che lungi dall’apparire strumento di grandi imprese, si riduce in ogni tempo e luogo a spietata fiera della vendetta; durante l’assedio di Troia si celebrano le più ripugnanti tra le caratteristiche della forza e del potere che essa ha, da una parte portare alla rovina chi la esercita e dall’altra pietrificare, riducendolo a cosa inerte nelle mani degli dèi, chi la subisce.
In questo potere di pietrificare e inchiodare il nemico alla sua sconfitta, annullandone il futuro, risiede la fascinazione della guerra, incarnazione del desiderio di cavalcare l’onda sanguinaria del potere e dell’esigenza incontenibile di dominare l’altro fino a disporne come di un corpo inanimato.
Il lucore delle armi non può che accordarsi sempre con l’orrore e il colore del sangue, la vittoria evaporare e la sconfitta sedimentare in rancore, reclamando vendetta. Il poema non celebra la bellezza epica del gesto valoroso; al contrario, per Simone Weil, la bellezza può affiorare solo negli sconfitti o quando l’eroe – figlio della sproporzione e dell’oblio dell’effimero – considera l’ipotesi di perdere l’equilibrio dall’alto della sua potenza: quando l’uomo cioè si ripiega su di sé e il destino lo richiama alla sua misura.
Come suggerisce la prefazione, il fascino della guerra non rappresenta che l’eredità di un errore prospettico che l’umanità fatica a correggere. La guerra non partorisce bellezza ma incubo, dunque sarebbe meglio pensarci e cambiare strada.