Come una barca a vela che sfida una corazzata in mare aperto, Simone Weil si confronta con Marx sui temi più delicati dell’intera sua filosofia politica. Senza seguito, senza editore, di nessuna scuola e con pochissimi maestri, la pensatrice francese accusa il marxismo di illudere il proletariato con la promessa problematica di un riscatto attraverso la rivoluzione.
Un sussulto primordiale – «una felice catastrofe» – avrebbe allora risvegliato il respiro delle masse e, come il fulmine di Zeus, avrebbe riaperto l’orizzonte della storia: finalmente l’alienazione sarebbe stata liquidata, il tempo liberato e persino gli antichi padroni avrebbero potuto godere di una pace altrimenti impensabile. Eppure, la giovane Simone, che a dieci anni – di fronte all’avvento della rivoluzione d’Ottobre – si era orgogliosamente proclamata bolscevica vede le cose in tutt’altra luce.
Parola proteiforme – divinità dalle mille facce – la rivoluzione assume, nelle analisi della Weil, la forma del più atroce degli equivoci.
Il suo spettro – continuamente evocato da Marx e dai suoi – illude il proletariato di essere destinato a una missione storica, dialetticamente necessaria, ovvero quella di superare il capitalismo e il suo assurdo cumulo di inganni; illude la classe operaia di avere il vento nelle vele, la scienza dalla propria parte, dunque un futuro felice a portata di mano.
Così facendo – spiega la nostra pensatrice – si lascia intendere ai proletari che le cose saranno facili, mentre si prepara per loro il più deludente dei risvegli.