Questo libro tratta di un uomo e di un mestiere che non ci sono più. L’uomo si chiama Bruno e racconta la propria storia in prima persona sullo sfondo di emigrazioni transoceaniche, di due guerre, del Fascismo e della Resistenza. Poi non ce la fa più, la malattia lo vince e la scrittura si interrompe bruscamente. Pur incompiuto, il racconto autobiografico mostra una sensibilità affinatasi con il tempo, delinea una singolare trama familiare che apre non pochi squarci sulla storia di Loreto, mentre interseca i convulsi avvenimenti dell’ultimo secolo. Colpisce in esso la preoccupazione costante di collocare le personali vicissitudini all’interno dei grandi avvenimenti e dei più ampi processi storici. La narrazione, essenziale e fluida, addirittura sorprendente: rivela che le mani del “facocchio”, abili con i ferri del mestiere nel trattare la materia, non lo sono meno alle prese con le parti del discorso, nella trascrizione dei ricordi. Mani sicure, quindi, anche con la penna. Il figlio di Bruno, Giuseppe, nelle pagine successive ricostruisce l’ambiente e l’attività del padre. Contestualizza il significato di quel mestiere, ne trascrive le tecniche, ne scheda ed illustra gli attrezzi, le fasi ed i pezzi. Interroga e lascia parlare i pochi superstiti dediti un tempo alla stessa attività artigiana. La bottega, suggestivamente evocata nel racconto di Bruno, assume così contorni precisi, popolandosi delle suppellettili che ne costituiscono il paesaggio. Visivamente l’impressione è quella del passaggio dal vecchio a sfumato dagherrotipo alla moderna fotografia analitica di precisione. Questo libro dunque non ha dentro solo un uomo ed un mestiere che non ci sono più. Esso è anche il risultato del travaglio e della passione di Giuseppe, che proprio perché rimangono in filigrana nelle pagine che seguono, è bene guardare ora in controluce. Se erano originate da un debito contratto dal figlio nei confronti del padre, quel debito può considerarsi estinto. Bruno può essere contento. Giuseppe può cominciare ad esserlo.